mercoledì 20 febbraio 2013

Arte e nazionalità. Qualche riflessione


Appunti dal corso di storia dell'arte dell'Università della terza età di Gorizia 2013.
"Arte di confine. Arte senza confini" docente Maria Masau Dan 

 
Lo spunto per tenere un ciclo di incontri su “Arte di confine, arte senza confine. Un percorso artistico lungo due secoli tra Friuli Venezia Giulia, Istria, Slovenia e Austria” nell’ambito della mia pluridecennale collaborazione con l’Università della terza età di Gorizia mi è stato dato da una mostra che si è tenuta nella primavera 2012 a Trieste, nel Salone degli Incanti, cioè l’ex Pescheria di Riva Nazario Sauro. Si intitolava “Orizzonti dischiusi. Arte del Novecento tra Italia e Slovenia” ed anche “Umetnost 20.Stoletja med Italijo in Slovenijo” e “Art of the 20th century between Italy and Slovenia”.  I curatori erano Josko Vetrih e Franko Vecchiet, un critico d’arte e un artista che appartengono alla minoranza di lingua slovena di Gorizia e Trieste. Anch’io ho fatto parte del Comitato scientifico a nome del Comune di Trieste che era uno dei tre soggetti promotori. Gli altri erano la KB1909. Società finanziaria con sede a Gorizia e la Banca Monte dei Paschi di Siena.

Perché questa iniziativa? La società KB1909 è proprietaria di una grande collezione d’arte molto rappresentativa della produzione artistica della comunità slovena di Trieste e Gorizia nel Novecento e ha deciso di farla conoscere al pubblico di questo territorio unendola ai dipinti già di proprietà dell’ex Banca di Credito di Trieste e ora del Monte dei Paschi di Siena. 

Nella prefazione al catalogo il presidente della Società e animatore di questa iniziativa, Boris Peric, scrive: “Le opere della nostra collezione sono nate parallelamente allo sviluppo della nostra società nel secolo scorso, a partire dalla sua fondazione avvenuta nel 1909 fino ai giorni nostri. Gli imprenditori e gli artisti furono ognuno a proprio modo protagonisti degli eventi storici di questo secolo caratterizzato da due guerre mondiali e da altre tragedie, ma anche da nuovi inizi e dall’affermazione dell’idea di un’Europa delle nazioni o di un’Europa delle diverse comunità che vivono nel rispetto reciproco una accanto all’altra. La cultura e l’arte hanno spesso anticipato queste esigenze precorrendo così la politica e l’economia. Le opere della nostra collezione dimostrano quanto i pittori sloveni triestini e goriziani fossero coinvolti nelle correnti culturali europee, testimoniando con la loro produzione artistica l’incredibile dinamicità e vitalità di questa piccola comunità che è sempre stata partecipe di momenti storici importanti.”

Gli artisti rappresentati in questa mostra erano trentacinque con 170 opere, tra cui ci sono nomi che sono molto noti e familiari nella nostra area, sia alla comunità di lingua italiana che a quella slovena: dai grandi della generazione nata alla fine dell’Ottocento come Augusto Černigoj, Veno Pilon, Ivan Čargo, ai maestri del Novecento, Luigi Spacal, Antonio Zoran Music, Tone Kralj, fino ai contemporanei come Franko Vecchiet, Claudio Palcič, Andrea Kosič, Jasna Merkù ecc. Molte delle opere erano delle autentiche scoperte anche per i maggiori conoscitori di questi artisti, poiché la collezione è stata vista pochissimo in occasioni pubbliche. Dunque una mostra di pezzi rari e interessanti che costituisce un unicum per quanto riguarda gli artisti di lingua slovena del territorio triestino e goriziano, anzi potremmo proprio definirlo un ampio e ricco “museo del ‘900” della nostra terra.

A questo punto, però, sorgono inevitabilmente degli interrogativi in chi guarda a queste esperienze esclusivamente con l’occhio della critica d’arte e cerca di trovare in un quadro solo valori artistici e non altro: è proprio giusto distinguere o raggruppare gli artisti con il criterio della nazionalità? O utilizzare questo criterio prima di quello artistico? E in questa zona dove il confine di Stato non sempre corrisponde a un confine linguistico e culturale, una divisione netta tra artisti italiani e sloveni è davvero possibile?
Avgust Cernigoj
Queste riflessioni naturalmente non diminuiscono la mia considerazione per l’iniziativa di questa bella mostra, e, anzi, sono consapevole che, se non ci fosse stato alla base l’orgoglio nazionale, certamente la raccolta delle opere degli artisti appartenenti alla comunità di lingua slovena non sarebbe avvenuta da parte della società KB, e tanti dipinti sarebbero ora dispersi chissà dove, mentre in questo modo noi possiamo seguire un percorso cronologico e stilistico veramente significativo e ben documentato. Ma ugualmente penso che si debba riflettere, e la mostra è stata molto utile e opportuna anche per questo. Questa esposizione era un insieme compatto oppure era la metà di qualcos’altro?

 Naturalmente non è da oggi che si discute su questi temi e che ci si imbatte in questo tipo di problemi, anzi è un passaggio obbligato quando si lavora sull’arte del Novecento nella nostra regione.

Seguo con sufficiente assiduità da almeno trent’anni le vicende degli artisti del Friuli Venezia Giulia, attraverso mostre e cataloghi, e pertanto ritengo di poter fornire una testimonianza abbastanza attendibile, e, per molti aspetti, di prima mano, per quanto riguarda la considerazione che ha ottenuto da parte degli studiosi italiani e sloveni la questione della specificità dell’arte slovena. Va aggiunto però che la situazione presente o degli ultimi decenni è molto diversa da quella di cinquanta o ottanta anni fa e che sarebbe comunque sbagliato, quando si affronta un fenomeno come questo, specialmente nella prospettiva storica, separare le vicende artistiche da quelle politiche, amministrative, culturali, economiche, scientifiche e, soprattutto, non tenere conto dei mutamenti avvenuti nel corso della storia, specialmente dal 1918 in poi. Nel corso del Novecento il confine, quello reale, si è spostato più volte, e anche di parecchio, modificando radicalmente l’assetto del territorio goriziano e triestino e provocando cambiamenti talvolta drammatici. Tutto questo non ha ancora smesso di produrre qualche effetto negativo, anche se le tensioni sono solo un lontano ricordo e hanno lasciato  spazio a una situazione di serena convivenza.

Avgust Cernigoj
In una realtà così complessa non trovo corretto parlare di “arte slovena”, esattamente come non avrebbe alcun senso una definizione in senso stretto di “arte italiana” in riferimento ai territori che si trovano a ridosso del confine tra i due Stati.  Certo le definizioni sono necessarie e funzionali a descrivere, distinguere e contestualizzare i fenomeni, ma specialmente in questo caso l’attribuzione di un’appartenenza esclusiva a una nazione e a una cultura va fatta con cautela. Né mi pare una tesi così interessante da dimostrare – se non in presenza di finalità politiche, ma su questo non ci vogliamo addentrare – mentre è molto più coinvolgente la ricerca su un’eventuale “identità di confine” che veda incontrarsi e fondersi le due anime che naturalmente convivono da secoli in questa terra e che dia luogo a una condizione di effettivo vantaggio.

Occorre riconoscere che le spinte nazionaliste corrispondono spesso a una reazione a squilibri nei rapporti fra i popoli generati magari da poteri molto lontani e che in molte epoche sono stati gli artisti stessi a impegnarsi con i loro mezzi nella battaglia politica. Pensiamo al Romanticismo, sia in Europa (Delacroix)  che in Italia,  sulla scia del quale anche l’arte ha contribuito alla costruzione della nazione. La storia nazionale non è solo frutto degli storiografi, ma viene raccontata anche attraverso le immagini dei pittori e i monumenti degli scultori (Hayez)(Vela).

E’ per questo che nascono anche i musei nazionali, utili a fornire agli artisti dei modelli. Così come per rappresentare l’identità e la genuinità di un popolo si scelgono i contadini, (Induno) meno contaminati dai costumi degli altri.

 Anche le esposizioni universali, (Londra) apparentemente volte a mettere in scena il mondo moderno su un piano internazionale, servono a precisare le identità nazionali e le differenze culturali. Nascono anche i musei etnografici per sottolineare caratteri e peculiarità dei popoli. Il primo esempio è il Nordiska Museet di Stoccolma inaugurato nel 1880.

Negli stessi anni in Italia abbiamo il fenomeno della pittura del Risorgimento, di cui abbiamo lungamente parlato nel corso del 2011, cioè un gruppo di artisti tra cui vanno ricordati soprattutto Gerolamo e Domenico Induno, Sebastiano de Albertis e Giovanni Fattori che hanno contribuito, grazie alla straordinaria qualità artistica della loro interpretazione,  a esaltare l’amor di patria e il sacrificio degli eroi che hanno combattuto per l’indipendenza italiana.

Si potrebbe obiettare, perciò, che la finalità della lotta politica non necessariamente diminuisce il valore artistico dell’opera ed è vero, né il senso di appartenenza a una patria, ma qui il valore risiede nella partecipazione autentica dell’autore alla causa non a una strumentalizzazione da parte di altri.

Ecco, è proprio questo il punto: il messaggio dell’opera deve essere proprio dell’artista e non di altri.

E’l’artista stesso che si definisce, che dichiara la sua appartenenza, a una parte, all’altra o a tutte e due. Che è il caso più frequente anche tra i nomi che abbiamo citato, soprattutto i più grandi, quelli che alla doppia identità delle loro origini, hanno aggiunto altri legami culturali non meno coinvolgenti e determinanti per le loro vite di artisti, Monaco e Weimar (come Černigoj) Parigi e Venezia (come Music), per fare due esempi importanti. Sono personalità che hanno superato facilmente il problema dell’appartenenza a una nazione o all’altra e che, comunque, non l’hanno vissuta o subita come limite, bensì l’hanno utilizzata come una marcia in più allargando gli orizzonti e scegliendo di confrontarsi con un mondo molto più grande.

Purtroppo il freno più pericoloso e nascosto per chi si trova a vivere nelle situazioni periferiche e di confine non è tanto la difficoltà di convivere e comunicare col vicino in quanto straniero, ma l’opportunità di rifugiarsi in un recinto rassicurante e protettivo, che dà molti vantaggi a chi fa questa scelta rinunciataria, tra cui quello di giocare la partita in un campo più piccolo e di avere un forte alibi per non doversi misurare veramente col resto del mondo. L’essere diversi da un altro, o addirittura contro, è di per sé una prova di valore. Questo ha molto a che fare con quella che si definisce semplicemente una mentalità provinciale e che si alimenta proprio di lotte di campanile, di ostilità immotivate. Possiamo vedere il fenomeno ripetersi anche in situazioni non attraversate da un confine, pensiamo al conflitto tra Udine e Trieste, tra Nord e Sud, tra sloveni e croati….

E infatti quando andiamo a esplorare nella produzione artistica del Novecento, troviamo molte etichette che identificano l’appartenenza geografica, come ad esempio può capitare di trovare “pittura triestina” o “pittura friulana”, come se fosse possibile riunire artisti diversissimi, e magari di generazioni ed esperienze diverse, solo perché sono nati nella stessa città o regione.

Senza pensarci tanto lo facciamo tutti, prima o poi, ma è sbagliato. E’solo una definizione di comodo che serve più all’organizzazione di mostre o di musei, o al calcolo di quanto è diffusa in un territorio una certa attività, che a un corretto inquadramento storico-critico degli artisti. Naturalmente è ben diverso usare questi termini quando si parla di “scuole”, cioè di gruppi di artisti che si sono formati in uno stesso luogo e con gli stessi insegnanti, in un’Accademia, o in uno studio, o in una bottega. O anche solo in un particolare momento storico o in un clima culturale o in un gruppo dominato da una personalità carismatica. Penso ad esempio a quanto ha influito a Trieste l’interesse per la psicoanalisi, per l’introspezione. Forse è esagerato attribuire a questo la presenza quasi ossessiva dell’autoritratto nella produzione artistica dei primi decenni del Novecento, ma sicuramente un legame c’è.

Quando il legame è personale, è stretto e ha una forte componente culturale, allora si può fare anche una valutazione di un gruppo di artisti: del resto ciò che li unisce di solito è facilmente riconoscibile nella loro opera.

Al contrario, il raggruppamento degli artisti con criteri geografici - pur essendo molto comodo nel momento in cui si fa uno sforzo di ordinamento dei fenomeni artistici - resta una strada piuttosto rischiosa e, nel valutarne gli esiti, si deve mettere sempre in conto qualche forzatura.

Robert Hlavaty
Troppo spesso ci si concentra sui contenuti per trovare ciò che accomuna gli artisti di una certa zona, e in questo la pittura di paesaggio offre i più facili appigli, ma in realtà, quando ci addentriamo nelle singole vicende, quando analizziamo i percorsi di ciascun autore, scopriamo, e dobbiamo riconoscere, che ogni artista è un caso a sé stante, che può essere avvicinato al suo conterraneo non più di quanto assomigli a chi sta a mille chilometri di distanza, che, in definitiva, il movente dell’arte e le ragioni per cui un artista si esprime in un modo piuttosto che in un altro, restano avvolti nel mistero e non si riuscirà mai a spiegarli completamente.

Nella mostra di cui ho parlato all’inizio, “Orizzonti dischiusi” opportunamente è stato usato un sottotitolo che tiene conto proprio di questa difficoltà di raggruppare gli artisti per nazionalità e recita “Arte del Novecento tra Italia e Slovenia” così come nei testi che ci introducono al catalogo si parla di “artisti di cultura slovena” e non “tout court” di artisti sloveni.

La faccenda è molto delicata, lo sappiamo tutti, ma a mio avviso è giusto discuterne, confrontarci, capire. Il bello di questa mostra è che, forse involontariamente o forse come aspetto collaterale, solleva anche questo problema, quello di identificare dei tratti comuni in un gruppo di artisti che solo ora – anche noi che apparteniamo alla cultura italiana - prendiamo in esame come gruppo, oppure solo ora questo può avvenire in un contesto culturale più ampio della comunità slovena, quello della città, o della regione, in cui hanno diritto di cittadinanza in egual misura artisti di lingua slovena e artisti di lingua italiana.

Non posso nascondere che dal punto di vista di coloro che hanno seguito le vicende artistiche degli ultimi decenni, è difficile accettare in toto e senza perplessità il raggruppamento proposto dalla mostra e, per fortuna, ci viene in aiuto una circostanza incontrovertibile, il fatto che siamo di fronte a una collezione, a un patrimonio unico e poco visto, a una benemerita azione di salvaguardia di testimonianze artistiche.

Tuttavia non ci viene spontaneo accettare questa realtà parallela, come se fosse simmetrica, se non opposta a un’altra, quella, magari che si poteva vedere a due passi dalla mostra, distribuita nelle sale del Museo Revoltella.  Ci piacerebbe molto di più vedere questi artisti pienamente integrati con gli artisti di cultura italiana di questo territorio con i quali molti di loro potrebbero avere in comune molti più elementi di quanti non ne abbiano nel contesto di questa mostra.
Loize Spacal

La mia posizione, intendiamoci, non era minimamente polemica, facevo parte con convinzione del Comitato scientifico della mostra ed ero sinceramente soddisfatta che il pubblico potesse vedere queste opere nel loro mondo di origine piuttosto che in qualche sala, pur bellissima, della banca toscana. Ma volevo anche lanciare una provocazione perché sono convinta che questa mostra dovesse essere solo la prima parte del lavoro e dello studio che meritano queste opere, nella prospettiva di creare una grande panoramica in cui sia ricostruito per intero il 900 locale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi rapporti e intrecci con l’arte del Centro Europa. Purtroppo gli ostacoli non sono solo la storica divisione tra italiani e sloveni in Italia, ma anche una certa resistenza del mondo sloveno a una fusione con quello italiano che potrebbe fare temere una perdita di identità.

Ma vorrei anche dire che gli ultimi a porsi il problema sono gli artisti che, in tutti i tempi, salvo i momenti più oscuri, che però sono stati difficili per tutti, hanno sempre esposto insieme, italiani e sloveni, nelle stesse mostre.

Quello che voglio dire, in sostanza, è che certe schematizzazioni sono tutto sommato artificiali e che oggi ci si rapporta con l’arte in un modo completamente diverso da quello che era tipico delle generazioni precedenti, legato alle scuole, alle correnti, agli ambienti, alle Accademie. Abbiamo assistito a fenomeni di globalizzazione dell’arte prima che questo avvenisse nell’economia e nel costume. La stessa impostazione della Biennale di Venezia per padiglioni nazionali resiste in forza della sua storia gloriosa, ma forse ha perso buona parte della sua ragion d’essere.

I nostri musei d’arte moderna faticano a svilupparsi non solo perché mancano i fondi per acquistare opere, e ce ne sono ancor meno per acquisire opere di artisti importanti, ma soprattutto perché non trovano facilmente una nuova identità e un nuovo ruolo nel mondo contemporaneo, dal momento in cui non possono più rappresentare solo la realtà in cui si trovano, ma devono rapportarsi col mondo e, nella maggior parte dei casi, è difficile se non impossibile per chi gestisce questi musei guardare con lungimiranza al futuro e scegliere quale parte del mondo deve entrare nel nostro.

Arte e nazionalità, arte e territorio: sono relazioni ancora attuali, sono necessarie? l’arte può farne a meno? E quale deve essere oggi il rapporto fra l’arte e la storia?

Quando sono stata invitata a partecipare a un dibattito a margine della mostra ho cercato di ricostruire la mia esperienza personale con gli artisti che sono rappresentati in questa mostra. E devo dire che mi sono occupata di molti degli autori qui presenti, dagli anni Ottanta in avanti. Molti li ho conosciuti personalmente e ho avuto modo di realizzare mostre collaborando direttamente con loro. Confesso che non ho mai percepito  l’appartenenza a culture diverse, semmai nel confronto con loro ho avvertito l’handicap di un  bagaglio culturale limitato anche dalla necessità di parlare un’unica lingua. Il bilinguismo certo rappresenta un grande vantaggio in una situazione come la nostra, rendendo possibile un confronto a 360° non solo col mondo intorno ma anche con la storia, quello che invece è precluso a chi ne è sprovvisto. Ed è stato sicuramente questo vantaggio, a mio avviso, che ha consentito lo sviluppo di talenti come quelli di uno Spazzapan o di un Cernigoj, tanto per fare due esempi importanti. Ma si potrebbero ricordare anche Veno Pilon o Music, non dimentichi delle loro origini ma anche liberi di esprimere la propria creatività in un mondo senza confini proprio per avere avuto la marcia in più delle due culture.

Ecco un nodo importante: stiamo parlando di artisti di cultura slovena o di artisti appartenenti a due culture? Forse è questa la differente prospettiva con cui guardano a questi fenomeni la critica italiana e la critica slovena.
Luigi Spazzapan

La bibliografia italiana sui pittori di lingua slovena li ha sempre considerati uno per uno, nella loro individualità, negli aspetti che li rendevano unici. Questo è iniziato probabilmente nel 1970 quando a Gradisca d’Isonzo, per ragioni legate anche al caso, si è realizzata la prima grande mostra di Luigi Spazzapan, da cui in seguito è nata la Galleria che porta il suo nome. In quell’occasione critici nazionali e locali hanno ricostruito la complessa biografia dell’artista attingendo anche a testimonianze di amici sloveni come Veno Pilon, il quale ha cominciato a raccontare le vicende goriziane degli anni venti, l’attenzione per le avanguardie, la dispersione del gruppo coll’affermarsi del fascismo.
Veno Pilon

Non si è continuato, però, a lavorare sulle relazioni fra gli artisti. In genere si è preferito allestire mostre individuali, ricordo, a Gorizia, quelle dedicate a Music e a Spacal fra il 1979 e il 1984.

In seguito si è potuto approfondire il rapporto tra italiani e sloveni in quel movimentato dopoguerra anche grazie alla mostra “Frontiere d’avanguardia. Gli anni del futurismo nella Venezia Giulia” che si è tenuta a Gorizia nel 1985. In quest’occasione si è aperto un nuovo orizzonte sulle avanguardie triestine, su Černigoj, ma anche sugli amici costruttivisti, Lah, Stepancic, i collegamenti con Lubiana e Belgrado. Era la prima volta in cui si valorizzava la componente slovena dell’avanguardia giuliana, tanto che Crali ne fu molto irritato e minacciò di ritirare le sue opere dalla mostra.

Ma già nel 1983, a Pordenone, la Galleria Sagittaria aveva presentato una mostra intitolata “Componenti slovene della pittura giuliana negli anni 20-30”. Pilon Černigoj Čargo a cura di Tullio Reggente e Peter Krecic.

E nel 1986 ricordo un seminario di studio dell’Istituto di Storia sociale e religiosa di Gorizia intitolato “La cultura slovena nel Litorale” tradotto in una pubblicazione del 1988, dove un critico d’arte colto e sensibile come Milko Rener aveva scritto un capitolo molto importante “L’arte figurativa nel Novecento”.

Lentamente dunque si è snodato un percorso che ha introdotto nella bibliografia italiana le vicende degli artisti di cultura slovena e oggi siamo molto più preparati e consapevoli del loro valore.

Ma torno sull’argomento di prima: occorre arrivare ad una integrazione di queste esperienze, occorre confrontarsi sui linguaggi e sulle modalità espressive, riportare nel nostro lavoro di storici e di critici la situazione per come si è naturalmente sviluppata, nello stesso tempo e nello stesso luogo, perché, se ci sono state barriere queste non erano certo volute dagli artisti.

L’area che i curatori della mostra hanno individuato è quella dell’Osterreichisches Kustenland/Litorale Austriaco, dove lo sviluppo della cultura figurativa presenta delle caratteristiche che ne fanno uno dei capitoli più interessanti della storia dell’arte “di frontiera”. “Il Litorale – continua Vetrih – rappresenta un importante punto di contatto tra la cultura artistica germanico-gotica dell’Europa centrale mediata dalla Slovenia e quella latino mediterranea mediata da Venezia.” Due grandi culture che qui si trovano a convivere a stretto contatto, a volte accettandosi e a volte confrontandosi aspramente, ma sempre interagendo scambievolmente col risultato di ‘contaminarsi’a vicenda.  Prova della vitalità di questa cultura di frontiera è secondo Vetrih il fatto che questo territorio ha offerto un canale privilegiato attaverso cui sono transitate molte delle idee propagandate dai movimenti d’avanguardia europei del primo Novecento. E ciò soprattutto grazie agli artisti di cultura slovena allora attivi a Gorizia e Trieste.”

 
Maria Masau Dan
 

 

 

 

lunedì 18 febbraio 2013

Artisti di frontiera a Gorizia tra Ottocento e Novecento


Appunti dal corso “Arte di confine. Arte senza confini”. Un percorso artistico lungo due secoli tra Friuli Venezia Giulia, Istria, Slovenia e Austria.
Università della terza età Gorizia / 2012-2013 – docente: Maria Masau Dan

 
ARTISTI DI FRONTIERA A GORIZIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO (*)

Introduzione

Scrive Josko Vetrih:

«In questo territorio lo sviluppo della cultura figurativa presenta nel corso dei secoli delle caratteristiche che ne fanno uno dei capitoli più singolari e interessanti della storia dell’arte “di frontiera”. Il Litorale rappresenta in effetti un importante punto di contatto tra la cultura artistica germanico-gotica dell’Europa centrale mediata dalla Slovenia (considerata nei secoli passati non ancora una ben definita formazione statale, ma molto più semplicemente una realtà nazionale integrata nell’Impero asburgico) e quella latino-mediterranea mediata da Venezia. Queste due grandi culture, che qui si trovano a convivere a stretto contatto, a volte accettandosi e a volte confrontandosi aspramente, ma sempre interagendo scambievolmente col risultato di “contaminarsi” a vicenda, hanno conferito all’arte del Litorale il carattere autentico e vitale che soltanto una cultura “di frontiera” può dare. »

Josko Vetrih, Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, in Orizzonti dischiusi. Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, Ed. Transmedia, Gorizia, 2012

La situazione artistica tra Lubiana e Gorizia alla fine dell’Ottocento

 Scrive Milko Rener:

«Il clima spirituale alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento nella metropoli culturale mitteleuropea è particolarmente vivace ed eccitato, e sembra segnato da una profonda crisi di valori: alla cultura “olimpica” si sta, in ogni campo, opponendo la nuova generazione in febbrile ricerca di nuovi contenuti.
L'atmosfera viennese diffonde nel senso di inquietudine e di ansia anche in periferia, ossia nei centri culturali delle varie nazionalità componenti il mosaico della monarchia asburgica. Vi si assiste ad un affannoso, complesso e per certi aspetti convulso fermento nel processo di ricerca e di affermazione delle identità culturale dei singoli popoli nel più ampio contesto europeo. Dai chiusi “salotti di lettura” si è passati ormai a trattare in campo aperto i problemi relativi alla piena valorizzazione culturale nazionale. Limitandoci al campo dell'arte figurativa in Slovenia, e poi più particolareggiatamente nel Litorale sloveno, si ha l'impressione di assistere ad una febbrile e per certi aspetti impaziente ricerca di ricupero del tempo perduto per mettersi al passo con lo sviluppo dell'arte europea. Ed è da qui che l’arte slovena incomincia a tratteggiare la propria fisionomia. 
Anton Ažbe
Per gli artisti sloveni il centro di maggior richiamo era stato in passato Vienna. Stranamente però la nuova generazione non sembra voler partecipare con particolare impegno al movimento della secessione viennese. Delusi dell'Accademia e non inseriti nel nuovo dibattito, i giovani artisti sloveni si orientano inizialmente soprattutto verso Monaco. Il richiamo di questa città non è dovuta tanto al clima, in quegli anni particolarmente effervescente specialmente nel campo della creatività artistica, bensì al fatto che qui aveva aperto una scuola di pittura il pittore sloveno Anton Ažbe. Si trattava di una scuola, diciamo così, “neutrale”, cioè in una posizione di mezzo tra l'accademia conservatrice e le tendenze innovatrici.  La scuola raggiunse grande notorietà e fu molto frequentata. La didattica pittorica offriva effettivamente all’allievo la possibilità di orientarsi e di avviarsi poi per la propria strada. Ne parla anche l’allievo Kandinskij.

Milko Rener, L’arte figurativa nel Novecento, in La cultura slovena nel Litorale, Gorizia, 1988, pp. 103-104.

Continuiamo a seguire il testo di Vetrih (sintesi)
 
Rihard Jakopic
 Come per la maggior parte degli artisti del Litorale, anche per gli sloveni il punto di riferimento per gli studi tra ‘800 e ‘900 era Vienna. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento diventa Monaco, dove il pittore sloveno Anton Ažbe (1862-1905) dal 1891 apre un’importante scuola di pittura frequentata da centinaia di studenti – in prevalenza provenienti dai paesi balcanici - e destinata a durare a lungo, fino alla prima guerra mondiale (anche dopo la sua morte dunque). Questa scuola ha un’impostazione classica, di stampo accademico, ma, in linea coi tempi, si apre anche ai movimenti più attuali, mostrando interesse soprattutto per la Secessione  tedesca (Jugendstil) nel tentativo di superare l’impressionismo e trovare la strada per un nuovo realismo pittorico. Gli allievi di Azbe (tra cui c’è anche Kandinsky) seguono diverse strade, chi l’impressionismo, chi il realismo, chi il simbolismo o le correnti postimpressioniste di fine secolo. Tra questi vanno citati anche i fondatori e maggiori rappresentanti dell’impressionismo sloveno: Rihard Jakopič, Matija Jama, Ivan Grohar, Matej Sternen, e, del Litorale, Pavel Gustinčič. Sono in ritardo rispetto agli impressionisti francesi e tedeschi (a cui si sentono più vicini) e la loro stagione produttiva si colloca nei primi due decenni del Novecento. Grohar muore nel 1911 ma continuano Rihard Jakopič, Matija -Jama e Matej Sternen, con una pittura piena di atmosfera, di luce e di colore.

L’impressionismo sloveno

Ivan Grohar
«A Monaco, da Ažbe, approda dopo le delusioni viennesi, in cerca di nuove esperienze, il quartetto dei giovani pittori sloveni con cui si inizia il primo vero capitolo della pittura slovena. Dopo aver riparato da Ažbe, pur sentendosi inizialmente alquanto spaesati e confusi tra quel febbrile incrociarsi e scontrarsi di movimenti, indirizzi e artisti (Hodler, Munch, Schiele, Segantini, Klee, ecc.)  tentano tuttavia di inserirsi e di convivere per quanto possibile in questo clima.

 La lezione fondamentale risultò per i quattro giovani pittori l’incontro e la “scoperta” degli impressionisti francesi e di Segantini: sembrava quasi che appena con questo incontro essi avessero trovato conferma di ciò che avevano cercato già prima come per una naturale predisposizione. Ebbe così inizio il capitolo dell'impressionismo sloveno, fenomeno ritardatario se si vuole, ma nato da profonde, proprie motivazioni e fondamentale nella storia della cultura figurativa slovena. Esso rappresenta veramente il primo capitolo dell'arte slovena nel pieno senso della parola. L'impressionismo sloveno non si caratterizza infatti nel sensuale abbandono al godimento della natura nel perenne fluire delle stagioni e nel sublimarsi di essa nella luce, ma si risolve in un canto lirico alla propria terra, elevata a simbolo dello spazio umano. Ed il simbolismo di Segantini -diciamolo per inciso - ancorché sottovalutato dalla critica contemporanea italiana, ha contribuito notevolmente a dargli questo contenuto. »

Milko Rener, L’arte figurativa nel Novecento, in La cultura slovena nel Litorale, Gorizia, 1988, pp. 103-104.

Cosa accade intanto nel Goriziano?
Avgusta Šantel
Occorre premettere che, grazie ai grandi cambiamenti avvenuti dal 1848 in avanti la popolazione slovena del Litorale acquista progressivamente una maggiore consapevolezza della propria identità culturale e dei propri diritti, e, se in precedenza era formata solo da contadini (che costituivano comunque la maggioranza della popolazione della Contea) nella seconda metà dell’Ottocento cresce una borghesia urbana di lingua slovena, che si afferma anche economicamente. In un clima così favorevole anche la vita culturale è piuttosto vivace. Questo si deve però anche a delle personalità che arrivano da fuori. Nel 1873 ad esempio giunge a Gorizia dalla Stiria la famiglia Šantel; più avanti arrivano i pittori Anton Gvajc, cultore della tradizione realista ottocentesca, Milan Klemencic e Fran Tratnik precursore dell’espressionismo sloveno.

Augusta Šantel è insegnante di disegno nell’Istituto Magistrale Femminile. Ha tre figli che seguono la carriera artistica, Henrika, Avgusta e Saša.

Anton Gvajc
Anton Gvajc, arriva a Gorizia nel 1895 da Lubiana. Ha condotto i suoi studi a Vienna ed è legato alla tradizione romantica ottocentesca. Insegna anch’egli all’istituto magistrale femminile e al ginnasio sloveno ed è anche maestro di futuri pittori come Avgust Bucik, Saša Šantel, Gojmir Anton Kos, ecc. E’anche collezionista e coltiva il sogno di creare a Gorizia un museo dell’arte slovena attraverso la “Società museale di Gorizia” (Muzejsko drustvo) che ha raccolto centinaia di documenti artistici ed etnografici.

Milan Klemencic è originario di Salcano ed è un artista eclettico formatosi tra Monaco, Venezia e Milano. E’marionettista, scenografo, pittore, fotografo. Prima della prima guerra mondiale è uno dei protagonisti del  mondo culturale sloveno a Gorizia. Veno Pilon lo riconosce come uno dei suoi maestri. Nel 1907 è presente con Henrica Šantel, Anton Gvajc e Melita Roijc alla prima mostra slovena di Trieste, allestita al primo piano del Narodni Dom (Hotel Balkan), alla quale prendono parte gli impressionisti sloveni ma non i pittori triestini.
Fran Tratnik

Tra gli arrivi importanti va inserito quello di Fran Tratnik, nel 1912. Rimarrà solo due anni, ma lascerà una forte traccia. Dopo avere studiato a Praga, Vienna e Monaco, e collaborato a varie riviste importanti, tra cui il famoso “Simplicissimus”, egli è l’artista che introduce l’espressionismo tedesco in Slovenia. Uno dei suoi disegni più noti è realizzato a Gorizia, “Lavoro nei campi” del 1914.

 L’influenza delle avanguardie

Per quanto riguarda il Novecento, «questo territorio può essere considerato anche come un “canale privilegiato verso il quale e attraverso il quale sono transitate molte delle idee propagandate dai movimenti di avanguardia europei del primo Novecento. E ciò grazie  soprattutto agli artisti di cultura slovena allora attivi a Trieste e a Gorizia e di tutti quelli che hanno operato per un certo periodo nelle  nostre terre. Negli anni tra le due guerre Veno Pilon, Avgust Černigoj,Ivan Čargo, Eduard Stepančič, Milko Bambič, Lojze Spacal, Zoran Musič, Riko Debenjak, Tone Kralj e altri ancora hanno contribuito per la loro parte alla diffusione in terra slovena delle esperienze accumulate non solo nei centri di formazione tradizionali di Vienna, Monaco, Praga, ma anche al Bauhaus di Weimar, nelle scuole d’arte italiane, nelle accademie di Bologna, Roma, Firenze, Venezia e in quella capitale dell’arte europea che era la Parigi di allora.»

Josko Vetrih, Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, in Orizzonti dischiusi. Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, Ed. Transmedia, Gorizia, 2012

 L’espressionismo sloveno
Tone Kralj
 Tra i movimenti di avanguardia, quello che si afferma maggiormente in Slovenia è l’espressionismo. Ci sono anche implicazioni sociali e politiche. Gli artisti vogliono raggiungere il popolo, renderlo consapevole della sua identità etnica e culturale con un linguaggio semplice ed efficace. L’artista che vi aderisce per primo, come si è detto, è Fran Tratnik mentre i principali rappresentanti sono Bozidar Jakac, i fratelli France e Tone Kralj e Veno Pilon, assieme ad altri seguaci meno duraturi come Drago e Nande Vidmar, Luigi Spazzapan , Miha Maleš, Ivan Čargo, ecc.


Veno Pilon, Ritratto di Marij Kogoj
Nell’aprile 1920 la novità compare nella mostra del Padiglione Jakopic di Lubiana e poi si concreterà anche nella “Primavera di Novo Mesto” dove esporranno i giovani artisti associati nel Klub Mladih/Club dei giovani. E’ la prima rivoluzione artistica slovena. Altri artisti avranno invece un atteggiamento più moderato pur sentendosi vicini alla nuova corrente. Contemporaneamente in Germania, proprio in direzione di uno sviluppo più moderato dell’espressionismo nasce la “Nuova Oggettività” (Neue Sacklichkeit) che coinvolge anche gli sloveni Pilon, Vidmar, Kos, Kralj, ecc. i quali attenuano le asprezze dell’espressionismo utilizzando le morbide linee ereditate dall’espressionismo ma anche i volumi del Novecento italiano.

Grazie a Tratnik, che esercita una grande influenza su tre pittori allora giovani, Luigi Spazzapan, Veno Pilon e Ivan Cargo, molto sensibili alle novità artistiche ormai diffuse in Europa, l’espressionismo attecchisce anche a Gorizia, dove c’è un ambiente artistico piuttosto vivace. 

Nel 1912 si tiene la prima mostra degli artisti sloveni, nella casa di un avvocato che si chiamava Dermota. Ci sono Avgusta Šantel, Henrika e Sasa Šantel, Bucik, Gvajc, ma anche l’impressionista sloveno Grohar, oltre naturalmente a Tratnik. Sembra l’inizio di una fase nuova ma la guerra interrompe tutto e quando tutto sarà finito questo gruppo sarà disperso, i Šantel e Tratnik a Lubiana, Gvaijc a Maribor, Bucik reduce dalla guerra e dalla prigionia nel 1919 andrà a insegnare a Idria.

 Il dopoguerra a Gorizia e dintorni

 Idria vedrà incrociarsi i destini di molti artisti sloveni grazie alla presenza di una Scuola tecnica (Real Schule) di lingua slovena. Oltre a Bucik, ritrattista di formazione accademico-realistica, colto e cosmopolita, che vi insegna per un anno, dopo la guerra arriva come allievo il triestino Milko Bambič e nel 1920 sarà Luigi Spazzapan a prendere il posto di Bucik. Nel 1926, però, la scuola verrà chiusa dalle autorità fasciste. Gli anni venti rappresentano una fase di sperimentazione d’avanguardia molto intensa, sia a Gorizia che a Trieste, ma dura pochi anni e già prima del 1930 tutto sarà stato normalizzato.  Il grande pubblico non capisce e non apprezza, e anche le autorità politiche a un certo punto stroncano decisamente tutti i fenomeni artistici troppo anticonformisti. Ma per almeno cinque anni, più o meno fino al 1927, le avanguardie artistiche possono sperimentare ed esprimersi liberamente.
A Gorizia nel 1923 nasce il Circolo Artistico Goriziano per iniziativa del critico Antonio Morassi e del poeta e pittore Sofronio Pocarini. Il Circolo riunisce italiani e sloveni: gli architetti Umberto Cuzzi e Giuseppe Gyra, i pittori Bolaffio, Del Neri, Battig, Sergi, de Finetti, Pocarini, l’ingegnere Brunner; Marij Kogoj, Ivan Čargo, Veno Pilon. Si trovano a discutere al Caffè Corso o al Circolo di Lettura, parlano di futurismo, cubismo, espressionismo… Organizzano anche una Scuola di Nudo. Nel 1923 Spazzapan entra in contatto con il Movimento futurista giuliano fondato da Pocarini e Vucetich e in questa occasione conosce anche i triestini Carmelich, Dolfi, Cernigoj. Così esporrà anche delle sculture futuriste a Padova nel 1926.

Luigi Spazzapan
L’evento più importante è la Prima esposizione goriziana di belle arti organizzata nel 1924 da Morassi e Pocarini. Espongono pittori già noti come Italico Brass, Vittorio Bolaffio, Gino de Finetti, ma anche i giovani esponenti dell’avanguardia Čargo, Pilon e Spazzapan. Sembra l’inizio di un nuovo corso, invece è la prima e ultima occasione di fondere tradizione e modernità, italiani e sloveni. Così molti se ne vanno. Pilon (che riesce a esporre un’acquaforte alla Biennale di Venezia) parte nel 1928 per Parigi; Čargo, diventato elemento politicamente sospetto, cerca riparo in Jugoslavia. Abbandona futurismo e costruttivismo e torna all’espressionismo. Nel 1928 anche Spazzapan parte per Torino sperando di trovare lavoro come decoratore all’Esposizione Nazionale. Si mantiene facendo l’illustratore per la “Gazzetta del Popolo”.

 I costruttivisti triestini

Avgust Černigoi
Tra coloro che cercano strade nuove nel primo dopoguerra c’è il triestino Avgust Černigoi (1898-1985) che forse è il più convinto seguace delle avanguardie, ma deve fare molte marce indietro. Tornato dal fronte della Galizia nel 1921 consegue l’abilitazione all’insegnamento all’Accademia di Bologna e poi si iscrive all’Accademia di Monaco, da dove nel 1923 si sposta a Weimar per seguire i corsi del Bauhaus diretto da Walter Gropius. Colpito dalla modernità della concezione di quella scuola, quando torna a casa, soprattutto per le difficoltà economiche, cerca di introdurre le idee costruttiviste a Lubiana (1924) che ottengono attenzione dai giovani ma non dalla critica. L’anno dopo, nel luglio 1925, al padiglione Jakopic organizza una seconda mostra costruttivista, ma viene accolta di nuovo male. Anzi viene espulso con l’accusa di legami con i comunisti.

Tornato a Trieste,  nel 1925 Cernigoj fonda la “Scuola avanguardista dell’attività moderna” assieme ai futuristi Carmelich e Dolfi, e coinvolge molti giovani studenti (Edvard Stepancic, Zorko Lah, Ivan Poljak, Ivo Spincic, Milko Bambic…) Lavora però come verniciatore di navi e poi nello studio di arredamento Stuard di Gustavo Pulitzer Finali. Collabora al teatro di San Giacomo come scenografo per l’amico regista Ferdo Delak, che è anche editore della rivista di Lubiana “Tank”, dove Cernigoj nel 1927 pubblica scritti e disegni. Nell’autunno del ’27 Cernigoj riesce a realizzare nel padiglione del Giardino pubblico di Trieste, nell’ambito della I Mostra sindacale del Circolo Artistico, una sala del Gruppo costruttivista triestino, che viene allestita con i lavori di Cernigoj, Stepancic, Carmelich, Vlah. Nel 1928 riescono a esporre a Berlino e la rivista berlinese “Der Sturm”nel 1929 dedica un numero al fenomeno della “Junge slowenische Kunst”.  Questo è il culmine dell’esperienza d’avanguardia di Cernigoj, che si esaurisce poco dopo. Comunque egli è il primo ad avere portato elementi astratti nell’arte slovena.

 

(*) Per questa lezione si sono seguiti i testi:

 

Josko Vetrih, Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, in Orizzonti dischiusi. Arte del Novecento tra Italia e Slovenia, Ed. Transmedia, Gorizia, 2012

Milko Rener, L’arte figurativa nel Novecento, in La cultura slovena nel Litorale, Gorizia, 1988, pp. 103-104.

 

 

 

domenica 3 febbraio 2013

Letture critiche. "Saper vedere" di Matteo Marangoni

LETTURE . "Saper vedere". Come si guarda un'opera d'arte. La metodologia di Matteo Marangoni
Fonte: sito archivio.pubblica.istruzione.it/didatticamuseale/ambito_arte1

Metodologie didattiche per la "lettura" delle opere d'arte si erano diffuse in Europa già tra il XIX e XX secolo: erano state pubblicate numerose "grammatiche" di pedagogia artistica, veri e propri manuali rivolti alla scuola e alle professioni. Ma è soprattutto con la pubblicazione, nel 1925 del Paedagogisches Skizzenbuch di Paul Klee che questo genere letterario trova particolare risonanza presso il grande pubblico.
In Italia il critico d'arte Matteo Marangoni (Firenze 1876 - Pisa 1958) impartiva, a sua volta, negli anni '20, le lezioni della prima grammatica e sintassi storica italiana della forma artistica, centrando l'attenzione sui "valori figurativi" delle opere d'arte, secondo la lezione di Heinrich Wolfflin e Benedetto Croce. Tali lezioni furono stampate nel 1932 con il titolo (ispirato al genio di Leonardo da Vinci) "Saper vedere". La pubblicazione ebbe un enorme successo, raggiungendo ben venti edizioni italiane e altre numerose straniere.
In pratica Marangoni esemplificò le fondamentali forme visive esaminando opere d'arte di varie civiltà e di tutti i tempi, scelte perché presentavano i differenti "valori figurativi", in base a determinate affinità, in accezioni limpide e marcate, anche senza definite relazioni storiche, al di fuori di tradizioni canoniche o preminenze culturali. Marangoni rifuggiva, infatti, da ogni definizione generale e unitaria di stili o forme per individualizzare, invece, i valori figurativi come identità o persone espressive in termini unici, irripetibili e non generalizzabili, caratterizzabili per mezzo di una serie di "coppie" di valori paralleli, antagonisti tra di loro, quali:
Soggetto Drammaticità
Contenuto/forma Movimento
“Verosimiglianza” Edonismo
“Sentimento/sentimentalismo” Colore
Bello/Brutto

Il soggetto
Una tendenza diffusissima nel guardare un'opera d'arte consiste nel cercare di individuarne il soggetto, cioè l'argomento (rappresentato da un personaggio, evento, storia, ecc.). La stessa storia dell'arte tradizionale suddivideva le opere d'arte in categorie secondo il soggetto: "pittura sacra", soggetti storici, il ritratto, il paesaggio, natura morta, ecc.
Un esempio, ormai classico, di opera d'arte priva di un ben determinato soggetto è rappresentato dal c.d. "Torso del Belvedere". Tale opera offrì grandissima ispirazione, a numerosissimi artisti, tra cui Michelangelo Buonarroti.

In realtà osserva Marangoni - anche un solo particolare di un'opera d'arte può essere apprezzato, indipendentemente dalla conoscenza del soggetto dell'opera stessa, dato che il valore di tale particolare "non è nel soggetto, ma nella personalità dell'artista". "Per un artista, dunque, il soggetto è soprattutto, un'occasione a ridestare la sua fantasia; egli, cioè, al di là del significato pratico vi scopre un significato artistico che sovente può non avere alcun legame logico con l'azione del soggetto stesso, ma, che è, invece, in perfetta armonia col suo temperamento". In pratica il contenuto che deve interessare l'osservatore non dovrebbe essere quello oggettivo del tema, bensì quello soggettivo del modo di interpretare quel tema da parte dell'artista. "Il vero contenuto poetico non è quello empirico che appare a noi tutti ma quello tanto più intimo e misterioso che l'artista concreta nella forma".

La verosimiglianza
Secondo un usuale preconcetto l'arte è verosimiglianza, cioè imitazione esteriore della natura. La critica d'arte ha dissolto oggi questo pregiudizio. Bisogna, perciò, insegnare a saper vedere. Un esempio di come il pregiudizio della verosimiglianza stravolga i reali valori artistici è rappresentato dal " Mosè " di Michelangelo:
La barba del Mosè è famosa perché appare "inverosimile" al grande pubblico, non avvertito dal punto di vista estetico. In realtà Michelangelo era del tutto disinteressato al significato pratico del dettaglio, scorgendo, invece, in esso l'occasione per uno stupendo motivo ritmico.
La civiltà che maggiormente ignorò il preconcetto della verosimiglianza - secondo Marangoni - fu quella egizia. Essa seppe idealizzare, come nessun altro popolo, la figura umana. Nei simulacri dei suoi faraoni è arrivata a trasfigurarla in ritmi plastici elementari ed eterni, spogliandola dei suoi caratteri mortali.

Anche nell'arte romanica si evidenzia una sorta di astrazione e deformazione rispetto alla natura apparente delle cose, come nelle opere di Benedetto Antelami. L'artista, infatti, tende ad accentuare elementi di deformazione rispetto ai tradizionali canoni della verosimiglianza, tanto diffusi pressoil grande pubblico.
Forma e contenuto
Per "contenuto" di un'opera si intende l'insieme dei fatti raccontati in un libro, del soggetto rappresentato in un quadro, in una scultura, in un film, mentre la forma è il modo artistico (letterario, pittorico, cinematografico, ecc.) di esprimere quel contenuto. "La forma mette in luce non solo l'abilità dell'autore..., ma la sua personale visione della realtà o della sua immaginazione: cioè lo "stile" personale" dell'artista. In linea di principio forma e contenuto dovrebbero fondersi in modo coerente nell'atto creativo, tuttavia, - secondo Marangoni - tale sintesi " risulta rara persino nei capolavori più celebrati, dove troppo spesso e nella stessa opera si vede l'artista peccar di incoerenza.
Ad es. secondo Marangoni la rappresentazione di Gioacchino con i pastori sembra sentita e concepita in due stati d'animo diversi: Gioacchino, gli alberi e gli animali secondo lo stile gotico; quella dei pastori, invece, secondo lo stile romanico.
Bello e brutto
Un'altra conseguenza del pregiudizio della verosimiglianza è rappresentata dalle false idee che il grande pubblico si fa intorno ai criteri di giudizio del "bello" e del "brutto" nell'arte, considerati alla stessa stregua dei criteri pratici della vita quotidiana. E poiché nella vita la bellezza fisica è generalmente regolare e la tradizione classica fa della regolarità una delle condizioni della bellezza, è opinione corrente, ormai, che bello sia sinonimo di regolare. Alcuni esempi: Studio di testa di Leonardo e Maddalena di Donatello.
 
 
Sentimento e sentimentalismo
La confusione tra sentimento e sentimentalismo si manifesta in modo particolare per quanto riguarda la dimensione drammatica di un'opera, anch'essa misurata sul metro della vita pratica anziché secondo il principio per cui il fine dell'arte consiste nel superamento della realtà empirica. Il "Martirio di San Sebastiano" è uno dei soggetti drammatici più trattati dagli artisti di ogni tempo, ma con esiti di artistici diversi:alcuni autenticamente artistici, altri tendenti al sentimentalismo. Qui vediamo tre esempi. Il San Sebastiano di Andrea Mantegna, il San Sebastiano di Perugino e quello del Sodoma.