"Arte di confine. Arte senza confini" docente Maria Masau Dan
Lo spunto per tenere un ciclo di incontri su “Arte di confine, arte senza confine. Un percorso artistico lungo due secoli tra Friuli Venezia Giulia, Istria, Slovenia e Austria” nell’ambito della mia pluridecennale collaborazione con l’Università della terza età di Gorizia mi è stato dato da una mostra che si è tenuta nella primavera 2012 a Trieste, nel Salone degli Incanti, cioè l’ex Pescheria di Riva Nazario Sauro. Si intitolava “Orizzonti dischiusi. Arte del Novecento tra Italia e Slovenia” ed anche “Umetnost 20.Stoletja med Italijo in Slovenijo” e “Art of the 20th century between Italy and Slovenia”. I curatori erano Josko Vetrih e Franko Vecchiet, un critico d’arte e un artista che appartengono alla minoranza di lingua slovena di Gorizia e Trieste. Anch’io ho fatto parte del Comitato scientifico a nome del Comune di Trieste che era uno dei tre soggetti promotori. Gli altri erano la KB1909. Società finanziaria con sede a Gorizia e la Banca Monte dei Paschi di Siena.
Perché questa iniziativa? La
società KB1909 è proprietaria di una grande collezione d’arte molto
rappresentativa della produzione artistica della comunità slovena di Trieste e
Gorizia nel Novecento e ha deciso di farla conoscere al pubblico di questo
territorio unendola ai dipinti già di proprietà dell’ex Banca di Credito di
Trieste e ora del Monte dei Paschi di Siena.
Nella prefazione al catalogo
il presidente della Società e animatore di questa iniziativa, Boris Peric,
scrive: “Le opere della nostra collezione sono nate parallelamente allo
sviluppo della nostra società nel secolo scorso, a partire dalla sua fondazione
avvenuta nel 1909 fino ai giorni nostri. Gli imprenditori e gli artisti furono
ognuno a proprio modo protagonisti degli eventi storici di questo secolo
caratterizzato da due guerre mondiali e da altre tragedie, ma anche da nuovi
inizi e dall’affermazione dell’idea di un’Europa delle nazioni o di un’Europa
delle diverse comunità che vivono nel rispetto reciproco una accanto all’altra.
La cultura e l’arte hanno spesso anticipato queste esigenze precorrendo così la
politica e l’economia. Le opere della nostra collezione dimostrano quanto i
pittori sloveni triestini e goriziani fossero coinvolti nelle correnti
culturali europee, testimoniando con la loro produzione artistica l’incredibile
dinamicità e vitalità di questa piccola comunità che è sempre stata partecipe
di momenti storici importanti.”
Gli artisti rappresentati in
questa mostra erano trentacinque con 170 opere, tra cui ci sono nomi che sono
molto noti e familiari nella nostra area, sia alla comunità di lingua italiana
che a quella slovena: dai grandi della generazione nata alla fine
dell’Ottocento come Augusto Černigoj, Veno Pilon, Ivan Čargo, ai maestri del
Novecento, Luigi Spacal, Antonio Zoran Music, Tone Kralj, fino ai contemporanei
come Franko Vecchiet, Claudio Palcič, Andrea Kosič, Jasna Merkù ecc. Molte
delle opere erano delle autentiche scoperte anche per i maggiori conoscitori di
questi artisti, poiché la collezione è stata vista pochissimo in occasioni
pubbliche. Dunque una mostra di pezzi rari e interessanti che costituisce un
unicum per quanto riguarda gli artisti di lingua slovena del territorio
triestino e goriziano, anzi potremmo proprio definirlo un ampio e ricco “museo
del ‘900” della nostra terra.
A questo punto, però, sorgono
inevitabilmente degli interrogativi in chi guarda a queste esperienze
esclusivamente con l’occhio della critica d’arte e cerca di trovare in un
quadro solo valori artistici e non altro: è proprio giusto distinguere o
raggruppare gli artisti con il criterio della nazionalità? O utilizzare questo
criterio prima di quello artistico? E in questa zona dove il confine di Stato
non sempre corrisponde a un confine linguistico e culturale, una divisione
netta tra artisti italiani e sloveni è davvero possibile?
Avgust Cernigoj |
Seguo con sufficiente assiduità
da almeno trent’anni le vicende degli artisti del Friuli Venezia Giulia,
attraverso mostre e cataloghi, e pertanto ritengo di poter fornire una
testimonianza abbastanza attendibile, e, per molti aspetti, di prima mano, per
quanto riguarda la considerazione che ha ottenuto da parte degli studiosi italiani
e sloveni la questione della specificità dell’arte slovena. Va aggiunto però
che la situazione presente o degli ultimi decenni è molto diversa da quella di
cinquanta o ottanta anni fa e che sarebbe comunque sbagliato, quando si
affronta un fenomeno come questo, specialmente nella prospettiva storica,
separare le vicende artistiche da quelle politiche, amministrative, culturali,
economiche, scientifiche e, soprattutto, non tenere conto dei mutamenti avvenuti
nel corso della storia, specialmente dal 1918 in poi. Nel corso del Novecento
il confine, quello reale, si è spostato più volte, e anche di parecchio,
modificando radicalmente l’assetto del territorio goriziano e triestino e
provocando cambiamenti talvolta drammatici. Tutto questo non ha ancora smesso
di produrre qualche effetto negativo, anche se le tensioni sono solo un lontano
ricordo e hanno lasciato spazio a una
situazione di serena convivenza.
Avgust Cernigoj |
In una realtà così complessa
non trovo corretto parlare di “arte slovena”, esattamente come non avrebbe
alcun senso una definizione in senso stretto di “arte italiana” in riferimento
ai territori che si trovano a ridosso del confine tra i due Stati. Certo le definizioni sono necessarie e
funzionali a descrivere, distinguere e contestualizzare i fenomeni, ma
specialmente in questo caso l’attribuzione di un’appartenenza esclusiva a una
nazione e a una cultura va fatta con cautela. Né mi pare una tesi così
interessante da dimostrare – se non in presenza di finalità politiche, ma su
questo non ci vogliamo addentrare – mentre è molto più coinvolgente la ricerca
su un’eventuale “identità di confine” che veda incontrarsi e fondersi le due
anime che naturalmente convivono da secoli in questa terra e che dia luogo a
una condizione di effettivo vantaggio.
Occorre riconoscere che le
spinte nazionaliste corrispondono spesso a una reazione a squilibri nei
rapporti fra i popoli generati magari da poteri molto lontani e che in molte
epoche sono stati gli artisti stessi a impegnarsi con i loro mezzi nella
battaglia politica. Pensiamo al Romanticismo, sia in Europa (Delacroix) che in Italia,
sulla scia del quale anche l’arte ha contribuito alla costruzione della
nazione. La storia nazionale non è solo frutto degli storiografi, ma viene
raccontata anche attraverso le immagini dei pittori e i monumenti degli
scultori (Hayez)(Vela).
E’ per questo che nascono
anche i musei nazionali, utili a fornire agli artisti dei modelli. Così come
per rappresentare l’identità e la genuinità di un popolo si scelgono i
contadini, (Induno) meno contaminati dai costumi degli altri.
Anche le esposizioni universali, (Londra) apparentemente
volte a mettere in scena il mondo moderno su un piano internazionale, servono a
precisare le identità nazionali e le differenze culturali. Nascono anche i
musei etnografici per sottolineare caratteri e peculiarità dei popoli. Il primo
esempio è il Nordiska Museet di Stoccolma inaugurato nel 1880.
Negli stessi anni in Italia
abbiamo il fenomeno della pittura del Risorgimento, di cui abbiamo lungamente
parlato nel corso del 2011, cioè un gruppo di artisti tra cui vanno ricordati
soprattutto Gerolamo e Domenico Induno, Sebastiano de Albertis e Giovanni
Fattori che hanno contribuito, grazie alla straordinaria qualità artistica
della loro interpretazione, a esaltare
l’amor di patria e il sacrificio degli eroi che hanno combattuto per l’indipendenza
italiana.
Si potrebbe obiettare,
perciò, che la finalità della lotta politica non necessariamente diminuisce il
valore artistico dell’opera ed è vero, né il senso di appartenenza a una
patria, ma qui il valore risiede nella partecipazione autentica dell’autore
alla causa non a una strumentalizzazione da parte di altri.
Ecco, è proprio questo il
punto: il messaggio dell’opera deve essere proprio dell’artista e non di altri.
E’l’artista stesso che si
definisce, che dichiara la sua appartenenza, a una parte, all’altra o a tutte e
due. Che è il caso più frequente anche tra i nomi che abbiamo citato,
soprattutto i più grandi, quelli che alla doppia identità delle loro origini,
hanno aggiunto altri legami culturali non meno coinvolgenti e determinanti per
le loro vite di artisti, Monaco e Weimar (come Černigoj) Parigi e Venezia (come
Music), per fare due esempi importanti. Sono personalità che hanno superato
facilmente il problema dell’appartenenza a una nazione o all’altra e che,
comunque, non l’hanno vissuta o subita come limite, bensì l’hanno utilizzata
come una marcia in più allargando gli orizzonti e scegliendo di confrontarsi con
un mondo molto più grande.
Purtroppo il freno più
pericoloso e nascosto per chi si trova a vivere nelle situazioni periferiche e
di confine non è tanto la difficoltà di convivere e comunicare col vicino in
quanto straniero, ma l’opportunità di rifugiarsi in un recinto rassicurante e
protettivo, che dà molti vantaggi a chi fa questa scelta rinunciataria, tra cui
quello di giocare la partita in un campo più piccolo e di avere un forte alibi
per non doversi misurare veramente col resto del mondo. L’essere diversi da un
altro, o addirittura contro, è di per sé una prova di valore. Questo ha molto a
che fare con quella che si definisce semplicemente una mentalità provinciale e
che si alimenta proprio di lotte di campanile, di ostilità immotivate. Possiamo
vedere il fenomeno ripetersi anche in situazioni non attraversate da un
confine, pensiamo al conflitto tra Udine e Trieste, tra Nord e Sud, tra sloveni
e croati….
E infatti quando andiamo a
esplorare nella produzione artistica del Novecento, troviamo molte etichette
che identificano l’appartenenza geografica, come ad esempio può capitare di
trovare “pittura triestina” o “pittura friulana”, come se fosse possibile
riunire artisti diversissimi, e magari di generazioni ed esperienze diverse,
solo perché sono nati nella stessa città o regione.
Senza pensarci tanto lo
facciamo tutti, prima o poi, ma è sbagliato. E’solo una definizione di comodo
che serve più all’organizzazione di mostre o di musei, o al calcolo di quanto è
diffusa in un territorio una certa attività, che a un corretto inquadramento storico-critico
degli artisti. Naturalmente è ben diverso usare questi termini quando si parla
di “scuole”, cioè di gruppi di artisti che si sono formati in uno stesso luogo
e con gli stessi insegnanti, in un’Accademia, o in uno studio, o in una
bottega. O anche solo in un particolare momento storico o in un clima culturale
o in un gruppo dominato da una personalità carismatica. Penso ad esempio a
quanto ha influito a Trieste l’interesse per la psicoanalisi, per l’introspezione.
Forse è esagerato attribuire a questo la presenza quasi ossessiva
dell’autoritratto nella produzione artistica dei primi decenni del Novecento,
ma sicuramente un legame c’è.
Quando il legame è personale,
è stretto e ha una forte componente culturale, allora si può fare anche una
valutazione di un gruppo di artisti: del resto ciò che li unisce di solito è
facilmente riconoscibile nella loro opera.
Al contrario, il
raggruppamento degli artisti con criteri geografici - pur essendo molto comodo
nel momento in cui si fa uno sforzo di ordinamento dei fenomeni artistici -
resta una strada piuttosto rischiosa e, nel valutarne gli esiti, si deve
mettere sempre in conto qualche forzatura.
Robert Hlavaty |
Troppo spesso ci si concentra
sui contenuti per trovare ciò che accomuna gli artisti di una certa zona, e in
questo la pittura di paesaggio offre i più facili appigli, ma in realtà, quando
ci addentriamo nelle singole vicende, quando analizziamo i percorsi di ciascun
autore, scopriamo, e dobbiamo riconoscere, che ogni artista è un caso a sé
stante, che può essere avvicinato al suo conterraneo non più di quanto
assomigli a chi sta a mille chilometri di distanza, che, in definitiva, il
movente dell’arte e le ragioni per cui un artista si esprime in un modo
piuttosto che in un altro, restano avvolti nel mistero e non si riuscirà mai a
spiegarli completamente.
Nella mostra di cui ho
parlato all’inizio, “Orizzonti dischiusi”
opportunamente è stato usato un sottotitolo che tiene conto proprio di questa
difficoltà di raggruppare gli artisti per nazionalità e recita “Arte del Novecento tra Italia e Slovenia” così
come nei testi che ci introducono al catalogo si parla di “artisti di cultura
slovena” e non “tout court” di artisti sloveni.
La faccenda è molto delicata,
lo sappiamo tutti, ma a mio avviso è giusto discuterne, confrontarci, capire.
Il bello di questa mostra è che, forse involontariamente o forse come aspetto
collaterale, solleva anche questo problema, quello di identificare dei tratti
comuni in un gruppo di artisti che solo ora – anche noi che apparteniamo alla
cultura italiana - prendiamo in esame come gruppo, oppure solo ora questo può
avvenire in un contesto culturale più ampio della comunità slovena, quello
della città, o della regione, in cui hanno diritto di cittadinanza in egual
misura artisti di lingua slovena e artisti di lingua italiana.
Non posso nascondere che dal
punto di vista di coloro che hanno seguito le vicende artistiche degli ultimi
decenni, è difficile accettare in toto e senza perplessità il raggruppamento
proposto dalla mostra e, per fortuna, ci viene in aiuto una circostanza
incontrovertibile, il fatto che siamo di fronte a una collezione, a un
patrimonio unico e poco visto, a una benemerita azione di salvaguardia di
testimonianze artistiche.
Tuttavia non ci viene
spontaneo accettare questa realtà parallela, come se fosse simmetrica, se non
opposta a un’altra, quella, magari che si poteva vedere a due passi dalla
mostra, distribuita nelle sale del Museo Revoltella. Ci piacerebbe molto di più vedere questi
artisti pienamente integrati con gli artisti di cultura italiana di questo
territorio con i quali molti di loro potrebbero avere in comune molti più
elementi di quanti non ne abbiano nel contesto di questa mostra.
Loize Spacal |
La mia posizione, intendiamoci, non era minimamente polemica, facevo
parte con convinzione del Comitato scientifico della mostra ed ero sinceramente
soddisfatta che il pubblico potesse vedere queste opere nel loro mondo di
origine piuttosto che in qualche sala, pur bellissima, della banca toscana. Ma
volevo anche lanciare una provocazione perché sono convinta che questa mostra
dovesse essere solo la prima parte del lavoro e dello studio che meritano
queste opere, nella prospettiva di creare una grande panoramica in cui sia
ricostruito per intero il 900 locale in tutte le sue declinazioni e in tutti i
suoi rapporti e intrecci con l’arte del Centro Europa. Purtroppo gli ostacoli
non sono solo la storica divisione tra italiani e sloveni in Italia, ma anche
una certa resistenza del mondo sloveno a una fusione con quello italiano che
potrebbe fare temere una perdita di identità.
Ma vorrei anche dire che gli
ultimi a porsi il problema sono gli artisti che, in tutti i tempi, salvo i
momenti più oscuri, che però sono stati difficili per tutti, hanno sempre
esposto insieme, italiani e sloveni, nelle stesse mostre.
Quello che voglio dire, in
sostanza, è che certe schematizzazioni sono tutto sommato artificiali e che
oggi ci si rapporta con l’arte in un modo completamente diverso da quello che
era tipico delle generazioni precedenti, legato alle scuole, alle correnti,
agli ambienti, alle Accademie. Abbiamo assistito a fenomeni di globalizzazione
dell’arte prima che questo avvenisse nell’economia e nel costume. La stessa
impostazione della Biennale di Venezia per padiglioni nazionali resiste in
forza della sua storia gloriosa, ma forse ha perso buona parte della sua ragion
d’essere.
I nostri musei d’arte moderna
faticano a svilupparsi non solo perché mancano i fondi per acquistare opere, e
ce ne sono ancor meno per acquisire opere di artisti importanti, ma soprattutto
perché non trovano facilmente una nuova identità e un nuovo ruolo nel mondo
contemporaneo, dal momento in cui non possono più rappresentare solo la realtà
in cui si trovano, ma devono rapportarsi col mondo e, nella maggior parte dei
casi, è difficile se non impossibile per chi gestisce questi musei guardare con
lungimiranza al futuro e scegliere quale parte del mondo deve entrare nel
nostro.
Arte e nazionalità, arte e
territorio: sono relazioni ancora attuali, sono necessarie? l’arte può farne a
meno? E quale deve essere oggi il rapporto fra l’arte e la storia?
Quando sono stata invitata
a partecipare a un dibattito a margine della mostra ho cercato di ricostruire
la mia esperienza personale con gli artisti che sono rappresentati in
questa mostra. E devo dire che mi sono occupata di molti degli autori qui
presenti, dagli anni Ottanta in avanti. Molti li ho conosciuti personalmente e
ho avuto modo di realizzare mostre collaborando direttamente con loro. Confesso
che non ho mai percepito l’appartenenza
a culture diverse, semmai nel confronto con loro ho avvertito l’handicap di
un bagaglio culturale limitato anche dalla
necessità di parlare un’unica lingua. Il bilinguismo certo rappresenta un grande
vantaggio in una situazione come la nostra, rendendo possibile un confronto a
360° non solo col mondo intorno ma anche con la storia, quello che invece è
precluso a chi ne è sprovvisto. Ed è stato sicuramente questo vantaggio, a mio
avviso, che ha consentito lo sviluppo di talenti come quelli di uno Spazzapan o
di un Cernigoj, tanto per fare due esempi importanti. Ma si potrebbero
ricordare anche Veno Pilon o Music, non dimentichi delle loro origini ma anche
liberi di esprimere la propria creatività in un mondo senza confini proprio per
avere avuto la marcia in più delle due culture.
Ecco un nodo importante:
stiamo parlando di artisti di cultura slovena o di artisti appartenenti a due
culture? Forse è questa la differente prospettiva con cui guardano a questi
fenomeni la critica italiana e la critica slovena.
Luigi Spazzapan |
La bibliografia italiana sui
pittori di lingua slovena li ha sempre considerati uno per uno, nella loro
individualità, negli aspetti che li rendevano unici. Questo è iniziato
probabilmente nel 1970 quando a Gradisca d’Isonzo, per ragioni legate anche al
caso, si è realizzata la prima grande mostra di Luigi Spazzapan, da cui in
seguito è nata la Galleria che porta il suo nome. In quell’occasione critici
nazionali e locali hanno ricostruito la complessa biografia dell’artista
attingendo anche a testimonianze di amici sloveni come Veno Pilon, il quale ha
cominciato a raccontare le vicende goriziane degli anni venti, l’attenzione per
le avanguardie, la dispersione del gruppo coll’affermarsi del fascismo.
Veno Pilon |
Non si è continuato, però, a
lavorare sulle relazioni fra gli artisti. In genere si è preferito allestire
mostre individuali, ricordo, a Gorizia, quelle dedicate a Music e a Spacal fra
il 1979 e il 1984.
In seguito si è potuto
approfondire il rapporto tra italiani e sloveni in quel movimentato dopoguerra
anche grazie alla mostra “Frontiere d’avanguardia. Gli anni del futurismo nella
Venezia Giulia” che si è tenuta a Gorizia nel 1985. In quest’occasione si è
aperto un nuovo orizzonte sulle avanguardie triestine, su Černigoj, ma anche
sugli amici costruttivisti, Lah, Stepancic, i collegamenti con Lubiana e
Belgrado. Era la prima volta in cui si valorizzava la componente slovena
dell’avanguardia giuliana, tanto che Crali ne fu molto irritato e minacciò di
ritirare le sue opere dalla mostra.
Ma già nel 1983, a Pordenone,
la Galleria Sagittaria aveva presentato una mostra intitolata “Componenti
slovene della pittura giuliana negli anni 20-30”. Pilon Černigoj Čargo a cura
di Tullio Reggente e Peter Krecic.
E nel 1986 ricordo un
seminario di studio dell’Istituto di Storia sociale e religiosa di Gorizia
intitolato “La cultura slovena nel Litorale” tradotto in una pubblicazione del
1988, dove un critico d’arte colto e sensibile come Milko Rener aveva scritto un
capitolo molto importante “L’arte figurativa nel Novecento”.
Lentamente dunque si è
snodato un percorso che ha introdotto nella bibliografia italiana le vicende
degli artisti di cultura slovena e oggi siamo molto più preparati e consapevoli
del loro valore.
Ma torno sull’argomento di
prima: occorre arrivare ad una integrazione di queste esperienze, occorre
confrontarsi sui linguaggi e sulle modalità espressive, riportare nel nostro
lavoro di storici e di critici la situazione per come si è naturalmente sviluppata,
nello stesso tempo e nello stesso luogo, perché, se ci sono state barriere
queste non erano certo volute dagli artisti.
L’area che i curatori della
mostra hanno individuato è quella dell’Osterreichisches Kustenland/Litorale
Austriaco, dove lo sviluppo della cultura figurativa presenta delle
caratteristiche che ne fanno uno dei capitoli più interessanti della storia
dell’arte “di frontiera”. “Il Litorale – continua Vetrih – rappresenta un
importante punto di contatto tra la cultura artistica germanico-gotica
dell’Europa centrale mediata dalla Slovenia e quella latino mediterranea
mediata da Venezia.” Due grandi culture che qui si trovano a convivere a
stretto contatto, a volte accettandosi e a volte confrontandosi aspramente, ma
sempre interagendo scambievolmente col risultato di ‘contaminarsi’a vicenda. Prova della vitalità di questa cultura di
frontiera è secondo Vetrih il fatto che questo territorio ha offerto un canale
privilegiato attaverso cui sono transitate molte delle idee propagandate dai
movimenti d’avanguardia europei del primo Novecento. E ciò soprattutto grazie
agli artisti di cultura slovena allora attivi a Gorizia e Trieste.”